GENITORE IDEALE -SOFFERENZA PER LA DIVERSITA’

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GENITORE IDEALE -SOFFERENZA PER LA DIVERSITA’

In questi giorni, mentre stavo leggendo un libro sull’ adolescenza di ragazzi con la sindrome di Asperger, ho avuto conferma di alcune cose sulle quali avevo molto ragionato ultimamente, una di queste è la sofferenza.

Ho sempre pensato che una qualsiasi diagnosi crei una percezione di diversità, che possa aumentare alcune problematiche già presenti nelle nostre vite quotidiane, come in questo caso, la sofferenza di essere o di sentirsi appunto “diversi”, come se la diversità fosse necessariamente un difetto.

In effetti in questo libro si parla di varie problematiche, attraverso anche il racconto della storia vissuta da un ragazzo dall’infanzia, passandro per la preadolescenza ed anche poi, nell’adolescenza.

Così ho avuto ulteriore conferma di quello che ho sempre pensato, su una terribile sofferenza causata soprattutto dalla solitudine, dovuta al fatto di sentirsi diversi.

“La sofferenza peggiore è nella solitudine che l’accompagna.”- André Malraux (La condizione umana, 1933)

Una solitudine forzata, una non appartenenza al gruppo dei “normali”, una sofferenza causata primariamente dal sentirsi diversi, molto più che dal venire trattati da diversi, rischio che aumenta notevolmente in presenza di patologie o di disturbi di qualsiasi tipo, sia visibili che non.

I cosiddetti ragazzi “normali” possono vivere il periodo adolescenziale con tutte le sue difficoltà, ma con una grande certezza, quella di appartenenza ad un gruppo di loro simili, indipendentemente che si tratti del gruppo famiglia, gruppo d’amici o gruppo d’aggregazione sociale.

Può succedere ad esempio di vivere una situazione di incomprensione o di conflitto con la famiglia, ma loro prendono comunque vigore da un forte e stabile senso di appartenenza con il gruppo dei coetanei, un’unione che fortifica perché simili tra loro.

“Le sofferenze, dicono, migliorano l’uomo. Visti i risultati, proverei con la felicità.” – Pino Caruso

Ma ti sei mai chiesto cosa succede quando il ragazzo è diverso, si sente diverso o viene trattato diversamente e non riesce a inserirsi in un gruppo di suoi simili e creare quell’aggregazione e quel senso di sicurezza e di forza che solo l’unione di un gruppo di pari può darti?

Ogni giorno si sente come un alieno sulla terra, ancor più quando, trovandosi alle porte dell’adolescenza, il ragazzo acquisisce più consapevolezza della sua diversità.

Credo che questo provochi una sensazione di solitudine, come quando all’improvviso ci si trova completamente da soli catapultati in un paese straniero, dove non si ha nessuno e dove non si riesce neanche a comunicare nella lingua locale.

La sofferenza è aumentata ulteriormente dalla consapevolezza che non è un soggiorno temporaneo ma, al contrario la permanenza in quel paese straniero della sua “diversità” è definitiva. Un paese dove non esiste la certezza di una possibile integrazione imparando una nuova lingua per potersi fare dei nuovi amici.

Una sofferenza dovuta alla consapevolezza della quasi certezza che probabilmente non esiste una cura per riuscire in un prossimo, o forse nemmeno in un lontano futuro, di poter ritornare nel paese della “normalità”.

“Se fosse vero che le sofferenze rendono migliori, l’umanità avrebbe raggiunto la perfezione.”  – Alessandro Morandotti 

Ecco che, se è quasi normale che nell’adolescenza ci troviamo a dover affrontare varie problematiche di tipo psicologico, nei ragazzi “diversi” la depressione è quasi certa.

Ma come facciamo ad educare gli adulti che hanno interazioni con questi ragazzi, che non li capiscono e che spesso sono convinti che la sofferenza faccia loro solo bene, che la sofferenza rafforzi il carattere e che li tempri, che in qualche modo hanno bisogno di essere preparati alla vita che verrà?

Serve capire che la frustrazione derivante dall’insuccesso di qualsiasi tipo, in una situazione dove l’insuccesso è quotidiano e dove è diventato la norma, non tempra per niente ma anzi, riesce solo a far abbassare ulteriormente l’autostima e la capacità di credere in se stessi.

Serve capire che una frustrazione per dei desideri non realizzati, in una situazione dove il ragazzo non è per nulla contento di come sta andando la  sua vita, non lo rende ragazzo viziato, ma semplicemente li rende il quotidiano un pò più soddisfacente, dandoli più carica per affrontare un nuovo giorno di insoddisfazione, di insuccesso e di “diversità”.

Non è vero che la sofferenza nobilita il carattere; la felicità a volte lo fa, ma la sofferenza, il più delle volte, rende gli uomini meschini e vendicativi. – William Somerset Maugham

Non è forse vero che siamo tutti convinti che la frustrazione, l’insuccesso, la privazione ci rendano più forti? Che nel momento stesso in cui viviamo una situazione di disperazione, una grossa perdita o compiamo un grave sbaglio che ci costa molto in termini di perdite, è allora che diventiamo più forti e cresciamo?

Tutto ciò può essere tremendamente vero, lo credo fermamente anche io. Le più importanti lezioni le ho imparate in questo tipo di situazioni difficili che ho incontrato nella vita e sono state le più grandi occasioni di crescita.

Non possiamo negare però che accanto alle difficoltà incontrate, nessuno di noi ha avuto insuccesso in tutti i campi della propria vita. Magari hai avuto problemi di lavoro, ma ti hanno sempre sostenuto le amicizie ed i famigliari, dove trovavi sempre conforto.

Se hai avuto invece il partner che ti ha lasciato, magari sei uscito di più con degli amici e ti sei applicato di più nel lavoro facendo più carriera. È difficile che una persona subisca dei periodi talmente sfortunati da perdere tutto insieme e riusire contemporaneamente a rimanere comunque indenne, senza avere la necessità di un supporto psicologico.

“Non basta soffrire. Bisogna anche saper soffrire. Solo così il dolore educa, matura, riscatta.” – Roberto Gervaso

Tutto quello che serve è mettersi realmente in ascolto dei loro pensieri, conoscere i loro sentimenti, avere un pò di sensibilità e riuscire a vedere quale è la  loro situazione di partenza.

Infatti la sofferenza può essere utile, ma è una  questione di quantità, di riuscire come un’alchimista ad impiegare tutto nei giusti dosaggi.

A volte vogliamo motivali, spronarli a reagire, vorremmo solo che diventassero più grintosi, ma non sapendo bene come fare, usiamo dei metodi e delle modalità che riescono solo ad allontanarci da loro.

Non possiamo non preoccuparci del loro benessere emotivo prima di occuparci delle regole che dovrebbero rispettare. Per un ragazzo “diverso” è fondamentale avere una buona relazione empatica con le persone intorno a lui, sentirsi accettato per quello che è.

Noi vorremmo proteggerlo dalle difficoltà della vita, ma l’unica buona eredita che possiamo lasciarli è di volersi bene, accettarsi e amare la sua diversità.

Ma tutto questo non è possibile se noi per primi non lo accettiamo, non lo apprezziamo, non lo amiamo proprio perché è diverso, ed invece lo vorremmo normalizzare e conformare ad un modello.

Dato che nella nostra mente esiste un bambino ideale, quando vediamo questi ragazzi la nostra è prevalentemente una sofferenza per il fatto che loro non siano neanche un pò vicini a quel nostro modello.

Ci concentriamo su quello che il ragazzo non sa fare, su quello che non è, su quello che non sa, su quanto non sia come quel nostro ideale, come quello che la società ci dice che dovrebbe essere un ragazzo “normale”.

“Il grande errore umano è di soffrire. Guai agli infelici!  E l’universo trionfa nel cuore di uno scellerato soddisfatto.”   – Jean Rostand

Soprattutto nell’esperienza scolastica viene evidenziata una discrepanza enorme, difficilissima da colmare, tra quello che il ragazzo dovrebbe imparare e quello che realmente impara.

Il nostro sistema scolastico vorrebbe essere inclusivo ma è fortemente competitivo. Premia i risultati e mette in risalto laddove ci sono delle difficoltà, molto spesso provoca danni.

Queste difficoltà scolastiche si aggiungono a quelle già esistenti. Col crescere aumenta la possibilità che il loro equilibrio emotivo e di difficoltà di  socializzazione diventi ancor più precario.

Si aggiungono i turbamenti ormonali, vorrebbero maggiore vicinanza con gli altri ed anche avere più libertà e autonomia dalla famiglia. Necessitano di sentirsi parte di qualcosa, di andare a prendersi il loro spazio nel mondo, di fare le loro prime conquiste.

Ma come è possibile che loro possano fare tutto questo, se non abbiamo insegnato loro ad amarsi ,ad apprezzare le loro qualità, ad avere fiducia nelle loro capacità..?

Soprattutto come possiamo insegnare loro tutto questo, se noi per primi non riusciamo a vedere il bello che c’è nelle loro peculiarità, se non abbiamo fiducia che troveranno la loro strada pur diversa dalle nostre aspettative iniziali, se non trasmettiamo loro la nostra gioia per la loro unicità..?

“Non si può avere compatimento per gli altri, quando abbiamo troppo da soffrire per noi stessi.” – Luigi Pirandello

Raccontami cosa ne pensi delle difficoltà adolescenziali, del bisogno di frustrazioni per crescere, della sofferenza per solitudine dovuta alla diversità.

Se hai avutto invece a che fare con questo argomento da vicino, o con una tua personale esperienza, mi piacerebbe se la riportassi nei commenti. Grazie!

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A presto!

 

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GENITORE IDEALE – HO PAURA, FORSE MIO FIGLIO HA QUALCOSA CHE NON VA’?

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GENITORE IDEALE – MIO FIGLIO HA QUALCOSA CHE NON VA’?

GENITORE IDEALE – HO PAURA, MIO FIGLIO HA QUALCOSA CHE NON VA’?

Oh mio Dio! … e se fosse vero che mio figlio ha davvero qualcosa che non va’…? Terrore puro… Domanda piena di paura, inquietante, straziante per il cuore di qualsiasi genitore.

La prima paura del genitore è di non riuscire a trovare in quel figlio così tanto desiderato, le caratteristiche che lo renderebbero felice e orgoglioso di essere genitore. La mancanza di tutte quelle qualità costruite irrealmente nella sua attesa, sposta e allontana paurosamente dall’immagine ideale creata nel tempo.

“Penso che talvolta i veri limiti esistano in chi ci guarda.” – Candido Cannavò

Successivamente alla prima reazione,  alla paura si mischia dell’amore, che in effetti però genera un altro tipo di preoccupazione. Questa volta è paura per la sopravvivenza e le future capacità sociali del proprio figlio.

La volontà di proteggerlo dalle difficoltà che incontrerà nella vita, dalla derisione o dalla cattiveria degli altri, dai possibili problemi di autonomia, rendono il genitore particolarmente sofferente e preoccupato.

Inoltre, la società odierna ha individuato diagnosi di ogni tipo, per motivare quello che non si adatta perfettamente a quell’ideale che abbiamo comunemente identificato come “normalità”.

“La disabilità è una questione di percezione. Se puoi fare anche una sola cosa bene, sei necessario a qualcuno.”- Martina Navrátilová 

Ecco allora che ogni genitore responsabile va alla ricerca di soluzioni, sia per proteggere il proprio figlio che per contenere e possibilmente attenuare tutte queste sue paure, con il rischio però di focalizzarsi troppo sul problema e poco sulla sua soluzione.

Siccome non sempre le difficoltà dei bambini sono necessariamente sinonimo di patologie, un bambino che non ce la fa ad apprendere una qualsiasi abilità incorre nel rischio di diagnosi, prima ancora che si provi se lo si può veramente aiutare.

La principale preoccupazione diventa, senza volerlo, capire ciò che non va in lui, più di quanto non lo è di imparare noi per primi come agire per aiutarlo a superare le sue difficoltà.

“La madre è orgogliosa del figlio che è salito in alto, ma darebbe la vita per l’altro: per il figlio senza fortuna.” – Libero Bovio

E se prima di tutto ci mettessimo noi a studiare e imparare come realizzare il miglior ambiente facilitante, educante e adatto ai bisogni dei nostri figli?

Se noi per primi diventassimo dei catalizzatori per attivare e incoraggiare le risposte delle loro funzioni attraverso stimoli quotidiani?

Se cercassimo prima di tutto, di capire quale è il blocco, la difficoltà, il perché non ce la fa?

“Non esiste un modo per essere una madre perfetta, ma ci sono milioni di modi per essere una  buona madre.”  – Jill Churchill

Le classiche attività quotidiane e la creazione di un ambiente armonico, sereno e amorevole sono una prerogativa essenziale per avere una facilitazione nell’ acquisizione di qualsiasi abilità.

Inoltre, tutti noi possiamo interagire con i nostri figli con dei giochi stimolanti e creativi, aiutando il cervello plastico attraverso la potenza cognitiva del giocattolo, a strutturare le sue funzioni fondamentali.

Potremmo quindi agevolare la comprensione, l’esercizio, la memoria, la concentrazione, la coordinazione, etc. anche ispirandoci alla ricerca scientifica, dallo sperimentare ed anche assistiti dal digitale, utilizzando strumenti per cercare di ottenere il meglio dalle capacità di ogni bambino, semplicemente giocando insieme a lui.

“Le verità che contano, i grandi principi, alla fine, restano due o tre. Sono quelli che ti ha insegnato tua madre da bambino”. – Enzo Biagi

A tutti i bambini dovrebbe essere garantito il diritto al massimo delle proprie funzioni, ma questo non dovrebbe cedere la priorità di cercare dei meccanismi di aiuto partendo dalla famiglia stessa.

Molte volte si tratta di piccole difficoltà educative, di stress o di problemi personali, oppure di disequilibrio nella coppia, di difficoltà nei rapporti. Senza paura, sensi di colpa o giudizio, si potrebbe provare ad osservare le proprie dinamiche relazionali, il modo in cui ci rapportiamo ai nostri figli.

Dovremmo capire che siamo il risultato di ciò che ci hanno insegnato o che abbiamo appreso attraverso le nostre personali esperienze.

Si potrebbe anche scoprire che potremmo sempre imparare modi nuovi più efficaci, trovare strategie che producano risultati più soddisfacenti.

Si tratterebbe soltanto di mettersi in gioco per primi e di non delegare a degli estranei la responsabilità della serenità e della salute emotiva dei nostri figli.

Sicuramente specialisti, medici, insegnanti hanno moltissime più conoscenze tecniche riguardo all’essere umano, ma nessuno ha la comprensione del bambino come il suo genitore.

“C’è un solo bambino bello al mondo, e ogni mamma ce l’ha.” – Anonimo

Osservarlo, accoglierlo, accettarlo, ascoltarlo, passere del tempo insieme, avere fiducia nelle sue capacità, alimentare la sua autostima, sostenerlo ed essergli una guida, essere autorevoli, riconoscere ed elogiare i suoi progressi quotidiani… sono un enormità di cose che dovremmo saper fare.

Il ruolo genitoriale rischia di essere ancora più complesso, quando si ha paura di essere inadeguati o del giudizio altrui, quando si è stanchi o insoddisfatti della propria vita, quando si hanno delle  difficoltà personali da superare.

Dovremmo forse prima di tutto cercare delle soluzioni al nostro personale benessere, di conseguenza a quello dei nostri bambini e solo successivamente cercare delle diagnosi.

Il bambino non riuscirà a capire tutte le nostre fatiche, tutte le energie che abbiamo impiegato nella sua crescita, ma sentirà forte e chiaro il messaggio che noi abbiamo fatto del nostro meglio per accettarlo, per amarlo e per proteggerlo.

“Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre.” – Sigmund Freud

 

 

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